Uno degli sport nazionali preferiti di questi ultimi anni, praticato in primis da giornalisti e politici, è quello di dare addosso ai docenti italiani. Ogni volta in modo diverso.
Quest’anno, per esempio, su alcuni giornali nazionali, la scorsa settimana, c’è chi è arrivato a sostenere che se le famiglie italiane si sfasciano, o i genitori non hanno più un buon rapporto con i loro figli, la colpa di chi è? Dei docenti della scuola pubblica. Perché? Perché sono sadici. Giuro. Perché danno troppi compiti agli studenti. Insomma, sarebbero i compiti che creano tutti questi danni. Se invece smettessero improvvisamente di dar compiti nelle scuole di ogni ordine e grado, le famiglie italiane e l’Italia intera sarebbero un Paese meraviglioso. Non ci si crede, lo so. Ma è proprio così. C’è chi ha paragonato la scuola pubblica italiana ad un gulag. E c’è anche un dirigente scolastico che, invece di promuovere un buon rapporto tra docenti e genitori degli studenti – rafforzando cioè quel patto educativo sempre più incrinato che è alla base di ogni serio e riuscito processo educativo, – ha pensato bene di fomentarne lo scontro. Creando in rete la petizione “Basta compiti”, titolo di un suo libro, che ha già raggiunto un discreto numero di seguaci. Perché bisognerebbe abolire i compiti?
Ecco alcune motivazioni: perché sarebbero inutili; dannosi perché procurano disagi; perché sarebbero discriminanti perché avvantaggerebbero gli studenti avvantaggiati; prevaricanti perché non lascerebbero il «diritto al riposo e allo svago», sancito dall’Articolo 24 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e riconosciuto a tutti i lavoratori; perché sarebbero impropri perché costringerebbero i genitori a sostituire i docenti senza averne le competenze professionali; limitanti e stressanti, perché causerebbero, appunto, molti, troppi conflitti famigliari. Sembra una barzelletta, ma non lo è.
Dalle pagine del Corriere della Sera, il maestro Franco Lorenzoni aveva provato sommessamente a spiegare a un papà che scriveva una lettera pubblica contro i compiti, che per imparare a suonare la chitarra, ci vuole un po’ di impegno e di esercizio. E, pazientemente, lo esortava: «Si fidi della scuola e delle sue scelte, si fidi degli insegnanti e del loro metodo. Sono bravi, mi creda».
Ciò che colpisce in questa polemica che quest’anno non sembra mai sopirsi, è come, ormai, a forza di aver avuto governi che parlano di scuole aziende e di diritto costituzionale gratuito come quello dell’istruzione dei minori non più, appunto, come un diritto, ma come di servizio, tra l’altro sempre più privato, la famiglia-cliente sia sempre più esigente. Ma non nel senso che pretenda una formazione del figlio sempre più alta; ammettiamolo, la qualità della scuola pubblica italiana, dal 2008 a oggi, con i tagli giganteschi a personale e fondi, ha tagliato anche la sua qualità. Ma, piuttosto, pretendendo una scuola sempre meno «invadente» nella vita adulta dei genitori. Come se i figli fossero auto e le scuole posteggi. O club di animazione turistica. È vero, nel tempo pieno, è bene che i bambini dopo otto ore a scuola non abbiano carichi eccessivi neppure nei week-end. E’ vero, in alcuni paesi scandinavi non vengono dati compiti, ma l’organizzazione e il calendario scolastico è assolutamente diverso dal nostro e lì si investe nell’istruzione moltissimo, mentre da noi pochissimo: là sono i primi in investimento in Europa e nel mondo, qui da noi gli ultimi; e questo, qualcosa, dovrà pur voler dire. Resta il fatto che tale polemica sui compiti promossa dai media italiani sembra minare ancora di più il fragile patto educativo tra docenti e genitori degli studenti che c’è oggi.
Personalmente sono a favore dei compiti. Perché responsabilizzano gli studenti (e, a questo punto, mi viene da dire, anche, alcuni genitori). Perché aiutano ad avere più autonomia (cioè ad imparare a fare da soli). Perché l’apprendimento, ma anche la buona educazione, mi viene da dire, nessuno te li regala ed hanno a che fare anche con impegno, disciplina, organizzazione del proprio tempo, fatica. Tutte parole che oggi sembrano cadute nel dimenticatoio. Sarà un caso?
(il manifesto – 15/09/2017)